Lucio Giuliodori

Claude Verlinde, Les livres.

Nell’antichità i filosofi fecero di Hermes l’interprete degli dèi, dunque l’interprete dell’invisibile, della sconosciuta oscurità, le erme infatti, nell’antica Grecia, segnavano un confine non solo spaziale ma anche il limite tra due stati dell’essere, Hermes  accompagnava le anime nel loro viaggio nell’Ade, il quale terminava con la resurrezione delle anime stesse. A questo proposito Dilthey dirà poi che il compito dell’interpretazione è “dare vita alle orme esangui del passato”. Per essere più esatti riguardo al compito di Hermes però è opportuno fare una precisazione: egli portava semplicemente il messaggio, non “intendeva”. Interpretare in quanto intendere il senso, non è il significato originario dell’ermeneutica, per arrivare ad esso infatti occorre tutta una storia: la storia dell’ermeneutica appunto. Tale storia è caratterizzata soprattutto dal tema del passaggio dal “regionalismo” all’universalità dell’ermeneutica. Il problema dell’interpretazione diventa una questione di ampio respiro nel momento in cui comincia a slegarsi dal ristretto ambito dei testi sacri.

Dall’esegesi biblica si passa dunque ad analizzare e interpretare qualsiasi tipo di testo. Questa “svolta ermeneutica” si verificò in seguito a diversi e determinanti fattori, tra i quali la tematizzazione della distanza temporale (tanto meno una tradizione culturale è partecipata, tanto più è obbiettivo il nostro sguardo su di essa), la Riforma e l’emancipazione dalla tradizione e, nel primo ottocento, l’originale apporto di Schleiermacher. Il filosofo tedesco infatti sosteneva che il recondito significato di un testo non dipende dalla trascendente sapienza divina, la quale all’uomo rimarrebbe per altro non del tutto dispiegata, ma da ragioni più “vicine” all’uomo e al suo mondo: ragioni linguistiche, storiche e culturali. Questo rovesciamento di prospettiva, rispetto al passato modo di concepire l’ermeneutica, è dovuto anche al nuovo significato che Schleiermacher dà all’ermeneutica stessa, questa infatti non è più l’interpretazione che muove dalla comprensione, intesa dunque quale base da cui far scaturire una possibile ermeneutica, bensì l’interpretazione che muove dal fraintendimento, ossia dalla stessa oscurità del testo.

È proprio l’iniziale fraintendimento che separa due esseri diversi, l’autore di un testo e colui che lo legge, che paradossalmente li avvicina, e li può avvicinare così tanto da permettere all’ermeneuta di capire il discorso addirittura meglio dell’autore stesso, come infatti afferma lo stesso Schleiermacher. In questo caso il metodo grammaticale si allinea a quello psicologico. Capire il discorso “meglio dell’autore stesso” non significa modificare la verità espressa nello stesso discorso, perché in questo caso sarebbe un’ermeneutica orientata verso la cosa, come invece non è quella di Schleiermacher, il quale vuole semmai comprendere solo ed esclusivamente il senso, non verificando per l’appunto la verità della cosa. Secondo Schleiermacher, come anche secondo Kant e tutti i romantici, l’arte è “produzione inconscia del genio”, questo significa per esempio, che se Newton è in grado di spiegare come è pervenuto ai suoi principi, lo stesso discorso non potrebbe essere fatto per Goethe o per l’artista in generale.

Ora, capire come un artista sia pervenuto alla sua opera, e dunque capirlo meglio dell’artista stesso, è compito dell’interprete, il quale quindi porta a coscienza la genesi dell’artista senza però verificarne il valore di verità che l’opera stessa asserisce. Questa impostazione del problema dell’ermeneutica da parte di Schleiermacher, ha per conseguenza la questione della distanza temporale, questione che influenzerà notevolmente la futura ermeneutica. Se bisogna partire dall’oscurità del testo, e se tale oscurità non dipende da fattori riguardanti la trascendenza divina ma semplicemente le varie ragioni storiche, culturali e linguistiche, ecco che nasce il problema della distanza temporale che separa l’interprete dal testo. Con Schleiermacher dunque nasce l’interpretazione come sapere storico e viceversa tutta la conoscenza storica si basa sull’interpretazione, assimilando ed identificando quindi questi due ambiti. Tale prospettiva viene poi integrata da Dilthey, secondo il quale “la vita spirituale trova solo nella lingua la sua espressione compiuta”; se lo scritto dunque è il prodotto storico per eccellenza, la migliore testimonianza di una cultura passata, l’interpretazione dei testi diventa la conoscenza tipica di tutte le scienze storiche.

L’originale contributo di Schleiermacher e Dilthey allo sviluppo del problema dell’ermeneutica segnerà poi il pensiero di tutti quegli autori che nel Novecento discuteranno di tale tematica, tutti infatti affronteranno il tema del linguaggio, della storicità, dello svelamento dei sensi oscuri e “del saperne più dell’autore stesso”. E così per esempio Heidegger dirà che “l’uomo è gettato nel mondo” e che quindi egli dispone già di una sorta di pre-comprensione garantitagli dal linguaggio che si trova ad avere - l’interpretazione è quindi, come egli stesso scrive in Essere e tempo “l’articolazione della comprensione”. Su questa scia si muove ovviamente l’allievo di Heidegger, Georg Gadamer, facendo dell’interpretazione la dimensione costitutiva di tutta l’esistenza. Altri aspetti del fenomeno interpretativo sono accentuati nelle altre riflessioni del pensiero contemporaneo: Paul Ricoeur per esempio pone l’accento sullo svelamento dei sensi nascosti, facendo del simbolo l’ “oggetto” primario da interpretare, altri importanti contributi sono forniti da Pareyson e Deridda e, in ambito anglosassone da Pierce, in questo caso nel segno di una prospettiva pragmatistica.

In ultima analisi, potremmo affermare che se nell’ antichità l’interpretare consisteva principalmente in un insieme di tecniche diverse fra loro e se nell’età romantica esso era invece relegato alla diversificazione e al regionalismo di un’ermeneutica religiosa, letteraria e giuridica, nell’età contemporanea abbiamo assistito alla nascita di un verstehen che imprime nella sua crucialità un’ermeneutica con ambizioni universali, quelle proprie appunto di ogni filosofia. A partire da Schleiermacher, e per tutta l’età contemporanea i limiti dell’ermeneutica vengono ad identificarsi con i limiti del linguaggio, perché non esiste conoscenza che non sia linguistica e perché non esiste linguaggio che non richiede interpretazione. L’individuo dell’età contemporanea si riconosce membro di una comunità, all’interno della quale egli dialoga e non solo per iscritto ma anche oralmente. Il suo rapportarsi con il prossimo, il suo appartenere alla comunità è a pieno titolo attività ermeneutica; la tecnica di delucidazione dei passi oscuri di un testo è ormai cosa antica e superata.

In conclusione siamo al di là dei regionalismi, ossia siamo ormai nell’orizzonte dell’ermeneutica filosofica, completamente slegata da singoli ambiti disciplinari che non facevano che relegare l’ermeneutica stessa nei suoi limiti recidendo un suo, tanto possibile quanto opportuno, sviluppo universalistico. E soprattutto siamo al di là anche della crisi dei sistemi idealistici; una volta accantonata l’idea di una possibile filosofia della natura, ossia di una filosofia speculativa valida anche nell’ambito del mondo fisico, il quale cessa quindi di essere considerato come la parte inconscia dello spirito, viene a cadere l’ambizione di poter cogliere tutto il reale nello spirito stesso.

Dilthey è proprio il testimone di questa crisi: la sua ermeneutica manifesta una pretesa di universalità ma solo in relazione al mondo storico e psichico, le cosiddette scienze dello spirito infatti non fanno che testimoniare l’impellente esigenza di autonomia nei confronti dell’indiscutibile trionfo della scienza. Il Geist delle Geistwissenschaften non è dunque non è quello dei sistemi idealistici, o più in particolare non è quello di Fichte o Schelling, come allo stesso modo il verstehen non è l’Enklaren rigoroso e obbiettivo proprio delle scienze. Un metodo certo e rigoroso a questo punto non è nemmeno più auspicabile vista la suddetta crisi dell’idealismo, vista cioè la perdita di fiducia nell’identità tra reale e razionale, ora quindi più che trovare un metodo si pensa a tutto ciò che concerne l’ambito del pulsionale, del vivente, in una parola: l’Erlebnis.

Non va assolutamente dimenticato però che l’ermeneutica contemporanea nasce dalla crisi, crisi che la scuola del sospetto ha ben evidenziato. Nel mondo tutto è finzione e tale finzione va smascherata ma non con un “metodo”, Nietzsche e Freud non parlano di intelletto ma di potenza e di pulsione, il verstehen qui assume l’aspetto di un elegante lavoro minuzioso volto a rovesciare il trono delle presunte verità incrollabili, basti pensare alla meticolosità e alla profondità della filologia nietzscheana in Genealogie der Moral (per fare un solo esempio, è molto interessante il passo in cui Nietzsche ci fa notare che la parola tedesca schlecht, che in italiano significa “cattivo”, è quasi identica alla parola schlicht, che significa invece “semplice”. Il tutto per mostrare come, a livello linguistico, il concetto di “nobile”, “eletto”, in senso sociale, si sviluppa insieme a quello di “buono”, nel senso di “animo signorile”, elevato e viceversa il volgare, il plebeo, il basso è un concetto sempre strettamente legato al concetto di “cattivo”).

I maestri del sospetto in sostanza hanno favorito il venir meno della filosofia in quanto scienza rigorosa, ciò comporta inevitabilmente un richiamo alla verità dell’arte e a ciò che essa “simbolizza”, il vero problema di ogni simbolismo però è non tanto sapere ciò che esso simbolizza quanto sapere se esso sia o no un vero simbolo, cioè un’ “entità” capace realmente di simbolizzare, cioè di “incarnare”, il simbolizzato.

Tralascerei le note indagini di Ricoeur sul problema del simbolo, per proporre invece a questo riguardo le riflessioni di un altro filosofo molto meno famoso dell’autore francese (meno celebre non tanto per questioni di merito quanto per dolorose e tristi ragioni legate alla brutale politica del governo del suo paese, egli venne infatti fucilato dopo aver scontato diversi anni di reclusione nei terribili lager sovietici): sto parlando di Pavel Florenskij e della sua filosofia del simbolo. Il pensatore russo offre un’interessante alternativa di interpretazione simbolica, nella quale la comprensione va quasi a fondersi con la contemplazione, tanto e tale è lo straripamento ontologico e gnoseologico del simbolo stesso. Tale dualità, o meglio, tale bi-unità (dell’essere e del conoscere) rende il simbolo, nella Weltanschaaung florenskiana, uno strumento infallibile nell’orizzonte gnoseologico, dentro il quale e attraverso il quale l’amore del filosofo trova spazio e tempo di essere e di conoscere nel divenire di un’interpretazione che non ha più per oggetto la cosa ma la sua essenza.

                                                        

Lucio Giuliodori

 

 

L'arte di interpretare.

Cenni sulla nascita e gli sviluppi dell'ermeneutica