Per chi passasse per Mosca, è d’obbligo una visita al Museo Roerich, dedicato appunto al geniale artista russo. Di fronte alle sue opere tornano alla mente le parole di Nietzsche: “E chi non ha ali non deve mettersi al di sopra degli abissi”. Nikolaj Roerich (San Pietroburgo 1874 – Kullu 1957), quelle ali le possedeva: fu pittore, scrittore e diplomatico nonché candidato al Nobel per la Pace. La sua produzione è pressoché sterminata: lasciò qualcosa come cinquemila dipinti e svariate centinaia di scritti a confermare un impegno artistico e intellettuale irremovibile e persistente, costantemente incanalato su due binari: il viaggio e l’arrivo, la pace raggiunta e la tetragona e spasmodica ricerca. In Italia i soli Julius Evola in Meditazioni delle vette ed Elémire Zolla in Scritti italiani su N. Roerich si occuparono della sua opera, rimasta tuttavia per lo più inspiegabilmente ignorata.
Nelle sue dipinte percezioni, la sacralità che graniva e deflagrava incessantemente conferiva senso al reale, un reale che traboccava di trascendenza. Scrive Mircea Eliade: «La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato».
L’intento artistico ed esistenziale di Nikolaj Roerich era proprio allineato a questo monito elidiano: svelare il sacro, vederlo concretato nella realtà delle cose, scoprirlo quale matrice significante di esse e al contempo come bellezza che splende e risplende di colori propri.
Roerich era affascinato dalle dottrine filosofiche orientali, i suoi continui e duraturi viaggi in Asia lo dimostrano, nei suoi dipinti l’Oriente è il tema precipuo, immortalato soprattutto attraverso le cime innevate del Tibet. Sostanzialmente Roerich, coglieva e dipingeva una verticale e assordante armonia tra l’uomo e il creato i quali, alla luce dei suoi dipinti, non sembrano separati ma abissalmente congiunti, quasi fossero un’unica coscienza: il reale è un’appendice meta-fisica di noi stessi – sembrano sussurrarci i suoi capolavori - il mondo esteriore non è altro che lo specchio onniforme di quello interiore.
Roerich, proprio come Gurdjieff, vagava in lungo e in largo per il pianeta, alla ricerca della conoscenza, in questo senso potremmo definirlo anche filosofo, nella concezione arcaica del termine, quale amante del vero. Viaggiava inseguendo le verità più inarrivabili e viaggiava per proporle, per diffonderle e per condividerle (i vari centri di studi e diffusione del sapere da lui creati in vari paesi del mondo, stanno proprio a dimostrarlo, si veda ad esempio il Corona Mundi International center di New York). Il tema del viaggio in Roerich, sottintende un atteggiamento, nei confronti del sapere, prettamente sincretista.
Il pittore russo è uno di quei personaggi accostabili alla cosiddetta Philosophia perennis, ossia quella specifica branca filosofica, di cui il sincretismo è la matrice ontologica, che prospetta una Weltanschauung olistica imperniata su alcuni assunti fondamentali, comuni a varie e differenti dottrine, soprattutto filosofico-esoterico-religiose, sviluppatesi nel corso della storia in differenti contesti storico-geografici. Questi assunti si riassumono sostanzialmente nell’interconnessione della realtà fisica e di quella metafisica, in termini quantistici nel loro entanglement – la fisica dei quanti del resto richiama chiaramente alcuni concetti della Filosofia perenne. Una delle implicazioni è che l’uomo non è, non può essere, in conflitto con il reale: la realtà esterna non è più “esterna”, l’uomo e il pianeta sono due manifestazioni di una medesima realtà onnicomprensiva. Non sussiste più un’entità esteriore da sfruttare, da usare e abusare a proprio vantaggio, piuttosto va creata con essa una profonda e proficua co-operazione alchemica, una penetrazione sul piano sottile attraverso una simbiosi profonda e archetipale: il fine non è imparare a vivere nel reale ma col reale.
Le innumerevoli immagini di Maestri in meditazione nelle montagne colorate dipinte dal pittore russo, raccontano di questa siderale armonia col creato, un creato dai colori fantastici, fiabeschi, meravigliosi perché meravigliosa è questa vertiginosa connessione al livello dell’essere.
Il mondo che fuoriesce da questa prospettiva è un mondo altro da sé, pressoché allucinato, come mai eravamo abituati a vederlo, i colori di Roerich sembrano profondamente più accesi di quelli del reale, in verità però siamo forse noi ad essere troppo spenti, siamo noi a non essere al reale armonizzati.
Solo se questo piano ontologico viene toccato – sembrano dirci i meditanti dipinti da Roerich - emerge il rutilante abisso della sacralità del reale. Ma non è un percorso semplice, le cime innevate del Tibet rappresentano quanto lungo e tortuoso sia il cammino, inevitabilmente iniziatico, che conduce ad altitudini che prefigurano ovviamente dimensioni metafisiche, percepibili attraverso stati di coscienza alterati.
E’ tramite essi che ci si libera da una grossolana percezione parziale del reale, non contemplante il suo infinito spazio superiore – quello noumenico, intorno e dentro di noi, proprio come lo dipingeva Roerich - attingibile innalzandosi, giungendo, fisicamente, ad altezze tra le più alte del pianeta per poi, metafisicamente, oltrepassarle: ecco l’armonia raggiunta, ecco il Sacro visto ed esperito a cui consegue una sorta di condizione estatica, trasmutata e per sempre segnata, come marcata, scavata e senza ritorno è ogni vera via iniziatica.
Come cantava Battiato nel brano Ermeneutica, “quando il sacro parla, l’eccelso prende forma”. L’eccelso qui è una nuova condizione dell’essere, un’umanità trascesa, superata, divinizzata.
La bellezza del sacro: Nikolaj Roerich.